Uno Stato di Conflittualità Permanente

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guerre nell'italia del rinascimento

Last Updated on 2023/04/16

Ghibellini e Guelfi: Rivalità tra Fazioni nell’Italia Medievale

Scrive il Burckhardt in La civiltà del Rinascimento in Italia:

ENGLISH: A State of Permanent Conflict

“Durante il Medioevo le città, le famiglie e i popoli di tutto l’Occidente s’erano reciprocamente assaliti con appellativi di scherno e di dileggio, nei quali per lo più c’era un fondo di vero più o meno svisato. Ma da tempo antichissimo gli Italiani si segnalarono nel saper cogliere ed additare le differenze morali tra città e città e tra paese e paese; il loro patriottismo, affatto locale, più vivo forse che quello di qualsiasi altro popolo nel Medioevo, creò assai per tempo una letteratura speciale e si alleò all’idea della gloria (1).

L’affermazione di Burckhardt coglie una delle caratteristiche più immediate delle lotte tra le città comunali italiane: alla radice degli scontri tra le diverse realtà cittadine vi è una marcatissima peculiarità culturale.

L’effetto primo è una sequenza pressoché infinita di guerre e guerricciole, di battaglie occasionali, di scaramucce casuali pregne di conseguenze, che insanguina l’Italia per quasi tre secoli: è altresì necessario ricordare come tali conflitti sempre si accompagnino e si sommino alle contese intestine che agitano violentemente la vita dentro le mura. D’altra parte, nel periodo, la guerra si respira con l’aria, entra in ogni attività ed in ogni pensiero dell’uomo. La parola guerra deriva dal germanico “werra” che si riferisce non tanto allo scontro in campo aperto tra eserciti avversari, quanto la rissa privata che si pone in rapporto con la lotta politica e più ancora lo scontro tra gruppi la cui molla principale è la vendetta.

L’esito delle faide e delle baruffe interne non è certamente secondario: in omaggio ad una prassi che è sentita naturale, in ogni centro il partito sconfitto finisce con il chiedere aiuto a vicini rivali, approfondendo e amplificando contrasti che insensibilmente perdono le iniziali connotazioni locali per assumerne altre meno decifrabili, e che tendono, in modo tortuoso e per nulla semplice ad interpretarsi, a sovrapporsi a problemi di politica che con una forzatura si potrebbe definire “internazionale”.

E’ in questo contesto che devono essere analizzati i concetti di “guelfo” e di “ghibellino” e le relative lotte di fazione, tutti importati in Italia sulla fine del Duecento. Tali termini sono ormai svuotati di ogni contenuto ideologico e non costituiscono altro “Che un sistema di aggregazione di cui i vari aderenti si servivano per conseguire personali progetti di egemonia. (Pirani)

La loro contrapposizione designa e insieme maschera lotte religiose, politiche, economiche che spesso non hanno legami precisi e immediati con il conflitto tra Papato ed Impero.

Già verso il 1355 il famoso giurista Bartolo da Sassoferrato demistifica tale contrapposizione nel suo Tractatus de guelphis et gebellinis, là dove dichiara che le due denominazioni non riguardano né la Chiesa né l’Impero, ma solo le fazioni che si trovano in una città o in un dato territorio. Ciò è indubbiamente vero: il che, tuttavia, non impedisce agli interessi organizzati di consolidarsi in comportamenti uniformi, che tendono a durare nel tempo e a trasmettersi attraverso le generazioni con progressivo arricchimento di linguaggio e di mito. In tali lotte si combattono spesso a morte gruppi e schieramenti che pretendono di richiamarsi a valori che partono da presupposti molto simili cercando, in contemporanea, di evidenziarne le rispettive differenze.

Vendicare l’onore e il sangue versato, ritrovare l’antico prestigio, innalzare ancora fiere bandiere sulle torri di castelli e alle porte di palazzi, sono atti che funzionano come motivazioni forti attorno cui aggregare la propria identità culturale, e nel contempo come pretesti per mantenere vivo il conflitto perenne tra le fazioni.

Queste, peraltro, trovano basi sicure nei gruppi familiari, saldamente radicati nelle città da secoli, gruppi dalle molteplici ramificazioni, rafforzati da una continuità dinastica, da numerose alleanze e da clientele fedeli.

Accade, dunque, che ragioni squisitamente politiche siano compenetrate, quando non offuscate, da meno razionali orgogli di casta: ma può succedere anche il contrario, che dalla faida familiare si arrivi allo scontro agganciato ai tempestosi rapporti che intercorrono tra papato e impero; gli uni e le altre si congiungono comunque alle grandi questioni che travagliano l’Europa.

Con il tempo, quindi, i termini di guelfo e di ghibellino assumono un significato più densamente “politico”, in base al quale i primi si tengono come obbligati a nutrire simpatie per la Francia, e i secondi a sostenere la causa imperiale, specie quando a tale dignità giunge Carlo V. In sostanza l’utilizzo del termine come “guelfo” e “ghibellino” segnala solo l’appartenenza ad una fazione anziché ad un’altra.

Assolutamente indicativo del doppio livello, locale e universale, su cui è vissuta la lotta tra Papato e Impero, è il simbolismo cui è affidato il compito del riconoscimento delle parti contrapposte. L’uomo del Medioevo vive in una foresta di simboli, dove le bandiere, le armi, gli emblemi hanno un’importanza fondamentale: le insegne, lungi dal limitarsi a rappresentare, partecipano di un’essenza, sono il cemento che lega la comunità impegnata nella lotta.

Nel 1400, ad esempio, in Lombardia i guelfi portano piume bianche alla tempia destra e un fiore all’orecchio destro, e i loro ufficiali la banda bianca; i ghibellini, di converso, hanno piume e fiore rosso alla tempia sinistra, e gli ufficiali esibiscono una fascia rossa.

Un secolo dopo, in Romagna, dove il tempo della vendetta si confonde con l’eternità, ancora i guelfi sono soliti sovrapporre all’orecchio destro medaglie d’oro che cuciono ai berretti e ai pennacchi delle celate; i loro avversari collocano gli stessi segni sulla sinistra, e tutti intendono manifestare in tal modo agli altri le proprie inimicizie.

Questa contrapposizione ante litteram tra “destra” e “sinistra” così viene sintetizzata in una relazione – riportata dall’Alberi – del segretario della Serenissima Giangiacomo Caroldo sullo stato milanese nel 1520:

I ghibellini portano la penna e divisa a mano manca, e i guelfi alla destra; e per questo portar di penna sono seguiti molti omicidi. E così il primo dì di maggio i guelfi piantano davanti le case l’olmo ed altri arbori che hanno il nome, in genere, mascolino e i ghibellini in femminino, juxta vulgare, come la rovere. Le armi de’ ghibellini hanno l’aquila negra di sopra; quelle che sono di colori e metallo, sempre il colore supera il metallo; e ne’ guelfi veramente il metallo supera il colore, videlicet; se un’arma fosse mezza d’oro e mezza azzurra, la ghibellina averia l’oro a banda sinistra e la guelfa a banda destra…Quelle armi che hanno figure d’animali e d’altro dipinto secondo il naturale sono ghibelline, come l’aquila negra in campo d’oro, però senz’ale, in campo azzurro. I Fregosi portano l’arma mezza negra e mezza bianca, il negro di sopra; i Martinenghi di Brescia portano l’aquila rossa e sono guelfi; i Trivulzi portano i bastoni d’oro e verdi, principiando dall’oro a banda destra;…la famiglia de’ Gonzaga, ghibellina, porta quattro aquile negre; la famiglia d’Este, guelfa, porta quattro aquile bianche; quelli da Carrara erano guelfi (2).

In realtà, come afferma Alexander Lee in “Il Rinascimento cattivo”, il periodo storico preso in esame dal dizionario anagrafico si configura come un equivoco mondo di ombre agenti  nel medesimo modo: nessuna differenza contraddistingue l’azione dei mercanti-banchieri senza scrupoli, da quella dei papi nepotisti e da quella dei capitani di ventura, uomini tutti per lo più brutali, corrotti, venali, depravati, violenti, concordi nella ricerca ad ogni costo del potere, della ricchezza e della “gloria” (comunque  essa potesse essere intesa); eppure, in contrasto, molti di costoro sono capaci di essere protagonisti nel  creare  un’epoca di rinascita culturale e di splendore artistico, in cui viene raggiunto uno straordinario grado di civile raffinatezza, definito tuttora l’età della bellezza.

In tale ottica un aspetto non secondario è fornito dal modo di concepire la “giustizia”. La morte per impiccagione, sovente, coglie senza distinzioni  i “terrazzani” (non i soldati), che hanno avuto l’ardire di opporsi a forze poderose. Altrettanto sanguinose sono le modalità legate all’uccisione (mediante impiccagione o decapitazione secondo il rango sociale) di chi è classificato come traditore. Lo scempio dei loro cadaveri prevede lo squartamento con relativa esposizione dei quarti in punti ben visibili della città, oppure l’innalzamento della loro testa su un’alta picca: il tutto concepito, sia come spettacolo per le numerose persone che vi assistono, sia come rappresentazione con finalità educative.

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